Ricordare il 1917, l’anno centrale della grande guerra sull’Altopiano, l’anno definito “terribile” per le sofferenze, i sacrifici e le perdite che la guerra ha comportato non solo per i militari sul fronte, non è un atto di celebrazione storica o di semplice retorica commemorativa, ma un atto necessario di comprensione e di approfondimento per quello che è avvenuto. L’anno 1917 si è aperto con un “terribile” inverno, “uno dei più rigidi e nevosi che la memoria umana ricordi”. Sui fronti di guerra, migliaia di soldati congelati dal freddo, sepolti nella neve, travolti dalle valanghe. Vita martoriata nelle trincee tra fame, sete, malattie, epidemie. Una serie di ecatombe dovute non solo a operazioni militari, ma anche ad un “clima assassino”.

Sull’altopiano, per tornare al confine dei primi mesi di guerra che passava per cima Portule, il generale Cadorna ha schierato 154 battaglioni, con complessivi 300.000 uomini e con oltre 1500 cannoni di diverso calibro, a cui erano contrapposti sul fronte austriaco 35 battaglioni di uomini e circa 400 pezzi di artiglieria. La mattina dell’8 giugno scoppiò la mina italiana sotto la cosiddetta “Lunetta dello Zebio”: terrore, confusione, 120 soldati morti. Per conquistare il monte Ortigara, la battaglia prese avvio il mattino del 10 giugno con un bombardamento su tutto il fronte nord dell’altopiano, in condizioni atmosferiche avverse. I reparti italiani si lanciarono all’attacco delle posizioni austriache, senza raggiungere gli obiettivi mirati, respinti dalle mitragliatrici nemiche. Il nostro storico Vittorio Corà ricorda la testimonianza del cappellano degli alpini Luigi Sbaragli in quei momenti: “Gli sbocchi delle nostre trincee vomitano uomini come da un argine rotto l’acqua si riversa per la china di un monte, ma le mitragliatrici nemiche li falciano… Vedo la catena degli uomini che si spezza. Vedo i soldati che vacillano e cadono pesantemente. Qualche caduto tenta di rialzarsi, si trascina a carponi, si attacca ai reticolati per tornare in trincea. Molti ricadono e tendono le mani. Povere mani tese alla morte”. Il giorno successivo seguirono altri assalti contro l’Ortigara.

Solo il 19 giugno gli alpini, aiutati da fanti e bersaglieri, riuscirono ad occupare la cima principale di quel calvario, ma dopo una settimana tutte le posizioni conquistate tornarono in mano austriaca con un bilancio disastroso di morti: 24.217 soldati italiani e 8577 soldati austriaci. “Ortigara, calvario degli alpini: furono infatti le penne nere a lasciarcele, le loro penne, su quelle petraie esposte al tiro incrociato delle artiglierie e delle mitragliatrici. Attacchi e contrattacchi furiosi, la vetta di quella maledetta montagna era stata anche conquistata, ma senza la possibilità di essere difesa con sicurezza, e infatti alla fine l’avevano dovuta abbandonare davanti ai proiettili a gas, ai lanciafiamme, alla superiorità delle truppe scelte nemiche …” (Lorenzo Brunazzo).

Dopo una estate relativamente calma, con immensi sforzi per riorganizzare e rafforzare le diverse posizioni prima dell’inverno, gli eventi precipitarono in ottobre con la ritirata italiana di Caporetto. L’avvenimento ebbe una enorme ripercussione anche psicologica in tutta Italia e particolarmente in Veneto e nel Friuli. Nel vocabolario italiano, “Caporetto” è diventato il simbolo della rovina, della disfatta. Oltre 200.000 profughi, in spaventose condizioni economiche e morali, in parte documentate e in gran parte inimmaginabili. Sull’altopiano, sotto la pressione dell’esercito austro–ungarico rafforzato dalle truppe tedesche ritirate dal fronte russo, i reparti degli alpini dovettero abbandonare il monte Fiara e il monte Ongara per retrocedere sulle Melette di Gallio e di Foza che tornarono ad essere il perno della difesa dell’altopiano, come ha raccontato con passione il nostro Bepi Boccardo nel suo libro “La battaglia delle Melette”. Nel mese di novembre caddero in mano austriaca anche il monte Castelgomberto e il monte Fior. Perdite italiane di 18.000 soldati, di cui 14.000 prigionieri. Paolo Monelli, combattente in quei giorni sui nostri monti, nel suo libro “Le scarpe al sole” ha scritto: “I soldati hanno fame e gelano nella notte rigida, ma finché le mani intirizzite reggeranno la baionetta, si colpirà… Con l’alba, batter di mitragliatrici su di noi, e granate fumose che pizzicano gli occhi e il naso, e sempre l’inutile attesa… E fame e sete, e il freddo notturno che ci lega ancora le membra. Ma poiché non si mangia e non si beve da quarant’otto ore, e non ci sono più cartucce, e siamo pochi, il destino chiude l’atto. Cala il sipario.”

In dicembre tutta la linea italiana dovette ripiegare nella Valle del Buso e sul Sisemol a Gallio, fino ad assestarsi in Valbella, a Col del Rosso e a Col d’Ekkele: i tre monti che divennero il simbolo della resistenza e della riscossa italiana dopo la rotta di Caporetto. Le operazioni militari danno solo una idea a quello che è avvenuto sul territorio dei Sette Comuni, sconvolto ad ogni chilometro, a tratti ad ogni metro. In quei mesi giunsero in aiuto agli italiani gli alleati inglesi, schierati tra Cesuna e il Prunno di Asiago, e gli alleati francesi, schierati tra cima Ekkar e la contrada Pennar. La guerra, con le diverse potenze europee coinvolte e le loro colonie, era diventata veramente mondiale.

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