L’anno 1916 sull’Altopiano

Il culmine dei tragici eventi della Grande Guerra sull’altopiano dei Sette Comuni è stato raggiunto nell’anno 1916. Anno della spedizione punitiva da parte dell’esercito austro-ungarico che per alcuni mesi ha concentrato sui nostri monti tutte le sue forze per sfondare il fronte italiano schierato dall’Adamello all’Adriatico. Anno del profugato della popolazione dei nostri paesi che dal maggio del 1916 per tre anni è stata condannata ad abbandonare improvvisamente tutto e andare raminga per diverse regioni italiane sopportando ogni specie di umiliazioni, di perdite e di sofferenze. Molti osservatori hanno notato come quello che è avvenuto sull’Altopiano in quell’anno deve essere conosciuto e ricordato perché “senza una presenza parlante della propria memoria, quei luoghi non possono vivere e mantenere un’identità”. Memoria non tanto commemorativa e celebrativa, ma memoria che “deve essere oggi presentata come serbatoio di senso e di orientamento” (M. Passerin e P. Pozzato).

È noto come l’offensiva austro-ungarica esplose il 15 maggio con un colpo di cannone che colpì Asiago, senza alcun preavviso, provocando il caos nella popolazione. Nei giorni seguenti, dopo l’attacco al Pasubio e all’altopiano di Tonezza, il fronte italiano ha ceduto sul Costesin, sul Portule, su Marcesina, sotto la pressione di combattimenti furiosi. Lo scrittore austriaco Fritz Weber ha testimoniato: “L’aspetto di Colle Costesin è terrificante. Il bombardamento lo ha trasformato in un carnaio. Braccia e gambe, pezzi di fucile e baionette emergono dalle posizioni sconvolte. Nei ricoveri demoliti si intravvedono cadaveri mutilati… Più di tremila morti giacciono nella foresta presso Brusolada, tra gli alberi spezzati, dietro i blocchi di roccia, sui prati crivellati di buche…” Le truppe austro-ungariche hanno invaso la conca di Asiago, occupando i paesi distrutti dai bombardamenti e avanzando fino al Sisemol, al Kaberlaba, al Lemerle, allo Zovetto e al Cengio, tra le epiche resistenze degli italiani. Lo scrittore italiano Carlo Emilio Gadda, combattente in Val Magnaboschi, ha attestato: “Questi monti furono tenuti senza trincee, sotto la violenza del fuoco nemico… A mano a mano che un’unità si disgregava, demolita dall’artiglieria, un’altra la sostituiva… Ecco perché la valletta non ha più l’aspetto che la natura le ha conferito: non ho mai visto un tale spettacolo di rovina”.

Nel giugno 1916 si concludeva la spedizione punitiva, “la più grande battaglia che mai sia stata combattuta in montagna e che vide fronteggiarsi sui monti delle prealpi vicentine, tra l’Adige e il Brenta, una massa di oltre un milione di uomini, con relativi animali e mezzi, su un territorio pressoché privo di risorse” (V. Corà). Nell’estate del 1916 i reparti italiani attaccarono più volte, accanitamente e inutilmente, le posizioni austriache del Portule, dell’Ortigara, dello Zebio. Tentarono ripetutamente e inutilmente di riprendere il controllo della Valdassa sotto Roana e Rotzo. Secondo il diario di un militare: “Era un continuo inferno di fuoco e di sangue, una continua tragedia di lotta e di morte, con privazioni di rancio, con le labbra riarse dalla sete e dalla febbre, senza sonno e senza riposo...”

Nell’autunno i due eserciti avviarono una vera e propria opera di urbanizzazione del territorio per la difesa della proprie posizioni, un’opera che continuò fino alla fine del conflitto. Fu costruito un imponente sistema di ricoveri e di baraccamenti per le truppe, un immenso sistema di trincee, di camminamenti, di postazioni di artiglieria, con una vasta rete di infrastrutture di supporto, come strade, impianti di trasporto a fune, acquedotti, ospedali da campo, luoghi di culto... Tutta un’opera che ha trasformato l’altopiano, lasciandoci un grande Ecomuseo a cielo aperto, “Un patrimonio che proprio per l’eccezionale rilievo, manifesta ancor oggi una straordinaria forza evocativa e di connotazione dell’ambiente” (V. Corà).

Ricordare quel 1916 sull’Altopiano, anche oltre questi brevi cenni, vuol dire diventare consapevoli in modo nuovo di fatti e luoghi carichi di valore storico, culturale e simbolico, sul piano non solo locale, ma anche nazionale e internazionale. Vuol dire “fare uscire la Storia dai libri di storia”, liberare fatti e luoghi da discorsi celebrativi e convenzionali. Il centenario della Grande Guerra può essere una occasione particolare per tutto questo.

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