Bainacht / Natale

L’augurio di Buon Natale nella tradizione cimbra dell’Altopiano (Guuta Bainacht) si rifà alla lingua tedesca (Weihnacht), al cuore della cultura nordica. Il Natale nella lingua inglese (Christmas), come nelle altre lingue europee, si rifà invece alla tradizione cristiana. La tradizione nordica si collega alle feste celtiche per il solstizio d’inverno, le feste per il ritorno del sole nel cielo all’inizio del nuovo ciclo annuale. Erano feste intensamente sentite (Bainachten - “Notti Benedette”, le nostre Feste Natalizie), con un vissuto profondo di solidarietà e di sogno che aiutava a sostenere il buio e il freddo, la povertà e le dure fatiche di una vita piena di sacrificio.

 

Nella tradizione dell’Altopiano, la sera della vigilia di Natale si metteva un grosso ceppo sul focolare, un ceppo raccolto e conservato per questa occasione. Era il “ceppo che porta bene”, come si diceva, il ceppo “per scaldare Dio il Signore che è nato in questa notte”, un ceppo di valore magico con cui veniva preparata la cena di mezzanotte. I carboni rimasti sul focolare erano conservati per essere riaccesi durante l’anno nei momenti di calamità e di pericolo. La tradizione voleva che nella notte di Natale anche il bestiame nelle stalle veniva coinvolto con una pastura abbondante di fieno. Molti allevatori sull’Altopiano ancora lo ricordano. E se la tradizione non era rispettata, gli animali si vendicavano con oscure minacce, come attesta un racconto tramandato a Roana e a Mezzaselva. Al mattino di Natale si cuoceva nelle case un grande pane di frumento, senza alcun ingrediente tranne un po’ di sale, che veniva spartito tra tutti i familiari come segno di condivisione di alimento e di destino.

La festa di Natale era il termine di una lunga attesa e di accurati preparativi, accompagnati da canti anche in lingua cimbra arrivati fino a noi. Ad Asiago e a Roana è ricordato ancora un canto di Natale che ci riporta una eco suggestiva di quei tempi che sembrano tanto lontani. Un canto registrato nelle Visite Pastorali di Asiago nel 1500. È la “Halghe Gasang”, la santa canzone, come era chiamata ad Asiago, o il “Darnach”, dalla parola iniziale del canto, come era indicata a Roana. Nel silenzio bianco di neve, sotto i cieli così grandi dell’Altopiano, deliranti di luna e di stelle, le strofe di quella Santa Canzone, con le sue modulazioni lunghe, arcaiche, venivano cantate in modo alternato da cori diversi sparsi nelle contrade di Asiago, tra i paesi di Roana e Canove, divisi dalla Valdassa, perfino tra Rotzo e Tonezza separati dalla Valdastico. Le parole della canzone raccontano la storia del “Unzar liber Got”, il nostro caro Dio, venuto sulla terra “zo stenan hortan hia”, per stare sempre con noi. Non sappiamo se c’è una tradizione religiosa che mostra un rapporto così intimo con “il nostro caro Dio”, sentito come una compagnia fedele e amica, nelle notti e nei deserti dell’esistenza e del mondo. Nel freddo di una stalla il Figlio di Dio è riscaldato soltanto da un “oxle un esle”, un bue e un asino, in una condizione di povertà in cui si può scoprire il valore delle cose semplici e vere, oltre il frastuono consumistico pieno di cose banali, false e senza senso che travolge il nostro Natale. Dopo aver ricordato i pastori e re magi venuti da lontano con mirra, incenso e oro, la canzone termina con un movimento lirico primitivo, molto incisivo nella lingua cimbra: “O Dio, che puoi tutto, che hai creato il cielo, la terra, il lampo, il tuono, ora sei nato così povero… con questo insegnamento ci hai mostrato la strada che dobbiamo percorrere”. Non sembrano parole moralistiche e devozionali, ma espressioni di vicinanza a un Dio che si fa piccolo e povero “zo stenan hortan hia”, per stare sempre qui con noi. Stringersi al Bambino di Betlemme, stringersi tra noi, stringersi ai poveri della terra, ai poveri non soltanto sul piano economico, ma anche sul piano sociale, affettivo e culturale, con veri sentimenti di solidarietà e di speranza, è forse il significato più profondo del Natale.

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