Giovanni Costa

Tra gli anniversari che ricorrono ad Asiago nel 2016, è da ricordare il secondo centenario dalla morte di Giovanni Costa (1737-1816), a cui ad Asiago è dedicata una via secondaria ed un piccolo cippo nel Parco della Rimembranza. Giovanni Costa risulta essere stato uno dei personaggi più illustri di Asiago. Il primo centenario dalla sua morte nel 1916 non ha potuto essere celebrato per la tragedia del profugato che ha disperso la popolazione di Asiago in molte regioni italiane sotto l’urto della spedizione punitiva austroungarica. Una significativa commemorazione del personaggio è stata fatta il 26 settembre 1937, in occasione della ricorrenza del secondo centenario dalla sua nascita. Il comitato d’onore organizzato per quell’evento annoverava molte autorità nazionali, regionali e locali, tra cui il Papa Pio XI, il Re Vittorio Emanuele II, e i rappresentanti di numerose accademie e università italiane. Per l’occasione è stata fatta anche una pubblicazione, stampata a Padova, curata dal prof. Giacomo Dal Sasso e dal prof. Giuseppe Costa.

Giovanni Costa era nato da una modesta famiglia e fu sempre “fiero delle sue origini sull’Altopiano e della nativa contiguità con la lingua e la cultura dei Cimbri”, secondo le attestazioni dei suoi biografi. Il padre Cristiano era un piccolo artigiano, della famiglia Pruck, come è ricordato da una lapide sulla sua casa presso il ponte sul Ghelpach. La madre era Maria Fabris. Dopo un corso brillante di studio e dopo essere ordinato prete, egli fu insegnante di scuola superiore a Padova “dove profuse il meglio del suo ingegno e gran parte della sua vita studiosa (…) con la sua vasta opera di poeta originale in latino e di traduttore in latino di poeti greci e di poeti europei moderni”. Egli fu presidente dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere e Arti, con una vasta apertura a ogni interesse culturale sia del passato come dell’Europa del suo tempo. Egli visse le trasformazioni profonde che portarono alla rivoluzione francese, con il passaggio dalla cultura neoclassica alla cultura romantica, aperta alle correnti più vive della modernità.

Tradusse la poesia inglese del primo romanticismo (il Pope, il Tomson, il Gray…) in modo personale e creativo, fino ad ispirare il grande poeta italiano Ugo Foscolo, che lo ha citato nel suo romanzo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” e nel suo capolavoro poetico dei “Sepolcri”. Giovanni Costa scrisse raccolte di poesie in lingua latina, come Lusus Poetici e Carmina, riguardanti vari temi, fino a toccare la nascente prospettiva dell’evoluzionismo. La qualità linguistica e stilistica della sua poesia è stata riconosciuta degna di stare al livello dei più grandi poeti latini dell’antichità classica. Nel 1804, in occasione della visita dell’Arciduca d’Austria in Veneto e ad Asiago, compose in latino una bellissima elegia, in cui dava il benvenuto al rappresentante imperiale e decantava l’Altopiano nei suoi aspetti naturali, economici e culturali. Dedicò anche un trattato alla origine cimbra degli abitanti dei monti Vicentini, Veronesi, Trentini e del Friuli (Disquisitio de Cimbrica origine populorum Vicetinas, Veronenses, Tridentinas ac Saurias Alpes incolentium), sempre in lingua latina, per rivolgersi agli ambienti della cultura ufficiale del suo tempo che usava ancora l’antica lingua di Roma.

Il prof. Giuseppe Costa, nella relazione tenuta ad Asiago nel 1937, presentò con passione tutta l’opera poetica del suo antenato e ne mise in luce l’esemplare attaccamento alla sua terra. In un Carme particolare, tra le incantevoli espressioni usate, egli sottolinea come Giovanni Costa: “è un figlio che parla, con entusiasmo traboccante, al nativo Altopiano, alla nostra cara terra, che è tra le più verdi e accoglienti contrade d’Italia”. Il poeta si rivolge con immensa tenerezza al paesaggio, ai parenti, agli amici. Canta la salubrità straordinaria dell’aria di Asiago: “o mihi natalis aurae suave nectar” (o nettare dell’aria natale così dolce per me). Canta la caccia, l’attività sportiva, le corse a cavallo, il tempo delle vacanze passate ogni anno sull’Altopiano, tempo vissuto non solo come evasione, ma come ristoro di nuova energia.

Per Giovanni Costa il bene supremo della vita è l’unione e la pace: “solo nella concordia scrupolosa dello spirito e del corpo, è la letizia dell’uomo, è la condizione di un bene verace”. “Concordes coeunt animi, rectique bonique fraternae jungunt foedus amicitiae” (Concordi vanno insieme gli animi, nella giustizia e nella bontà congiungono un patto di fraterna amicizia): nella unione e nella concordia c’è la felicità dell’uomo. Unione e concordia anche in campo linguistico e culturale. Ecco la passione di Giovanni Costa per le relazioni, le amicizie e le collaborazioni. Ecco la sua passione straordinaria per le lingue antiche e moderne, per tutte le culture del mondo, con una apertura cosmopolitica tipicamente illuministica e tipicamente moderna. Egli ha scritto: “Omnibus est populis sua mens, sua gratia cultus; quocumque alium possis vincere, semper est” (ogni popolo ha la sua mentalità, la sua cultura; c’è sempre qualcuno che potrai vincere).

Giovanni Costa non si è chiuso nella nostalgia della lingua cimbra del suo Altopiano e nemmeno nella lingua elegante del Veneto del suo tempo. Tra le diverse lingue egli raggiunse la forza comunicativa più grande nella lingua latina, per lui più duttile e più familiare della stessa lingua italiana. La lingua latina per lui era “sonora, pressa et efficax, multo mihi accomodatior quam itala” (sonora, concisa, efficace, per me molto più funzionale della stessa lingua italiana). Giovanni Costa arriva a confermare il parere di un libro pubblicato in questi giorni (Nicola Gardini, Viva il Latino: storia e bellezza di una lingua inutile) che parla del valore del latino non solo nella nostra storia civile e religiosa, ma anche nella nostra cultura personale. La passione di Giovanni Costa per la lingua latina non era legata a desideri di ambizione e di esibizione personale, non era fuga dalla realtà del suo tempo, ma era rapporto vitale col passato, secondo la indicazione di Marguerite Yourcenar, che ha osservato come “il passato parla dell’amore alla vita molto più del presente”.

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