La lavorazione delle trecce di paglia adatte a confezionare cappelli per la stagione estiva, sporte di qualsiasi forma e misura ed altri oggetti ancora, fu per tanti anni un'industria a domicilio, che, abbinata ad altre occupazioni, rappresentò per la popolazione di Lusiana l'unico mezzo per procurarsi il minimo sostentamento in un tempo in cui la miseria e la povertà erano le condizioni purtroppo diffuse tra le popolazioni di montagna e dell'Altopiano in particolare. Le condizioni di ristrettezza economica avevano in passato costretto gli uomini validi a emigrare verso le Americhe, l'Australia e verso gli stati dell'Europa occidentale già industrializzati, lasciando in paese i bambini, le donne e gli anziani che si industriavano in qualche modo per arrotondare le magre rimesse degli emigranti con piccoli lavori manuali, quale appunto quello di intrecciare la paglia per il confezionamento di cappelli ed altro. Circa la provenienza di tale "industria" si sono avanzate delle ipotesi, alcune attendibili altre, invece, chiaramente leggendarie. C'è chi suppone che la lavorazione della treccia di paglia sia pervenuta dal Cremonese, dove fino al 1300 tale "industria" era fiorentissima; c'è chi ipotizza che sia stata portata dalla Toscana, dove ancora oggi viene praticata nelle province di Firenze e Arezzo; chi, infine, ritiene sia stata introdotta verso la metà del 1600 da un certo Nicolò Dal Sasso, che l'avrebbe importata dall'Oriente.

Qualunque ne sia l'origine, resta il fatto che la preparazione della treccia richiedeva un lavoro lungo, faticoso e paziente. La paglia meglio adatta era il fusto, o culmo, del frumento. La mietitura veniva effettuata appena la paglia prendeva a biancheggiare. Il frumento veniva legato in piccoli fastelli, che nelle case dei lusianesi venivano subito puliti dall'erba e dalla gramigna mediante un grosso pettine di ferro, chiamato "chijj?". Si formavano quindi dei mannelli legati saldamente proprio sotto le spighe, che venivano recise. La paglia, unita in manipoli detti "mazzi", veniva poi esposta al sole perché essiccasse. In seguito si depurava, spogliandola delle foglie residue e dei nodi, quindi si divideva in gruppi secondo la grossezza con appositi vagli di latta (i tamisi), mediante i quali si potevano ottenere fino a quindici gradazioni. Infine la paglia pulita veniva chiusa in apposite casse, mentre al centro si bruciava dello zolfo, il cui fumo serviva per imbiancarla. Cominciava allora la lavorazione della treccia, che poteva essere a sette, undici e tredici fili, detti "fastughi", e di varie forme: a spina semplice, a doppia spina, col dente, con spighetta semplice, con spighetta a catena. Finita la treccia, se ne recidevano le cime sporgenti, quindi per mezzo di una rudimentale misura di legno della lunghezza di un braccio, circa 70 centirnetri detto "brazolaro", si preparavano i cosiddetti "pacchi", che dovevano raggiungere la lunghezza di venti metri. Successivamente i commercianti passavano per le contrade a ritirare i "pacchi", che venivano portati negli appositi laboratori dove si confezionavano cappelli di paglia, sporte e altro ancora. Come tanti prodotti dell'Altopiano, anche tale manifattura era esente da qualsiasi dazio fin dal 1667.

Attualmente la lavorazione della paglia è del tutto scomparsa, come sono pure scomparse tante tradizioni e tante consuetudini che avevano animato la vita delle nostre genti di montagna; rimane solo il ricordo! La vecchietta, seduta sulla soglia di casa, con la manata di 'fastughi' sotto il braccio, mentre intreccia con le agili dita le sette pagliuzze e la fanciulla attenta allo stesso lavoro, mentre attende alla custodia del piccolo gregge o della sparuta mandria, sono scene caratteristiche di un'epoca definitivamente trascorsa.

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